Didone Abbandonata: Beethoven e Clementi a confronto
Informazioni sull'evento
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Evento musicale multimediale realizzato nella splendido spazio della Chiesa di San Francesco a Trevi, in totale sicurezza e distanziamento COVID-19.
Alessandro Bistarelli, pianista concertista, didatta e ricercatore, interpreta la Sonata Didone Abbandonata di Muzio Clementi mettendo a confronto con la produzione pianistica di Ludwig van Beethoven del periodo coevo.
La Didone abbandonata di Clementi (1821) e il tardo stile pianistico di Beethoven: riflessioni estetiche e linguistiche
La personalità artistica di Muzio Clementi è essenzialmente legata al pianoforte, anche se in seguito Clementi allarga il campo dei propri interessi compositivi all’orchestra sinfonica. Muzio Clementi è infatti compositore, didatta, concertista, fabbricante di pianoforti, editore.
L’attività creativa di Clementi va dallo stile galante all’incipiente Romanticismo e “si estende dunque dal 1765 (anno cui appartiene l’inedita Sonata in la bemolle) al 1821 (nel quale apparve l’op.50) abbracciando, si può dire, l’intero arco dell’età classica”.
Clementi impone allo strumento densità e potenza sonora, arricchisce il lessico pianistico con figurazioni a doppie note, in terze e seste. Sviluppa la tecnica delle scale, in ottava, terze e seste, degli arpeggi e degli accordi.
La ricerca virtuosistica è anche ricerca sulla sonorità. Clementi predilige la scrittura legata e la sonorità piena e cantante, adatta alle linee melodiche distese e nobili. Per Clementi, la ricerca sullo strumento è sperimentazione di nuove soluzioni tecniche e foniche e passa per il dominio e il superamento delle difficoltà.
La creazione musicale è intimamente legata alle proprietà organologiche e alle caratteristiche fisiche e meccaniche dello strumento, nello specifico dei pianoforti inglesi che Clementi prediligeva, costruiva e diffondeva. I pianoforti usati da Clementi adottavano la meccanica english grand action e si distinguevano per la ricchezza dello spettro sonoro, soprattutto nel registro medio. Erano meno raffinati e agili dei pianoforti viennesi, dotati però di risorse foniche superiori e sviluppavano maggior potenza.
Clementi diffonde il nuovo strumento nelle capitali della musica e presso un pubblico sempre più vasto di utenti e di fruitori: il musicista si sposa con l’uomo d’affari e con l’imprenditore, per una causa nobile a cui dedicherà tutte le proprie energie e la propria vita. I pianoforti inglesi rispondevano perfettamente all’ideale sonoro e tecnico del pianismo clementino.
Clementi esplora il pianoforte da ricercatore e sperimentatore, fissando e definendo i parametri del pianismo classico. I Preludi ed esercizi esplorano tutte le scale, nelle varie tonalità e nelle possibili combinazioni. Il Gradus ad Parnassum (1817, 1819, 1826), cento studi per pianoforte suddivisi in tre volumi rappresenta un punto di riferimento obbligato per i futuri sviluppi del pianismo, fino a Chopin. La magna charta del pianismo classico si presenta come una raccolta varia ed eterogenea, quasi una summa delle ricerche dell'autore intorno al pianoforte e delinea gli ambiti linguistici del pianismo classico.
Sul piano estetico, Clementi si esprime soprattutto nell’ambito della sonata. Il termine ha un significato vasto, e racchiude oltre alle sonate propriamente dette, per pianoforte solista, opere con accompagnamento ad libitum di flauto o violino, secondo l’usanza dell’epoca, duetti, cioè sonate per pianoforte a quattro mani o due pianoforti, sonatine, e fughe.
L’itinerario compositivo clementino comprende ben 124 Sonate. Molte opere sono di elegante fattura, di gusto squisito, di agile impianto formale, ma non trascendono comunque gli stilemi della tradizione. In altre si nota una ricerca armonica, una tensione emotiva, uno slancio fantastico, una così profonda concezione del dolore, tali da dischiudere nuovi orizzonti estetici e compostivi.
Otto Sonate sono in tonalità minore: Sonata in sol minore op. 7 n. 3 (1782), Sonata in sol minore op. 8 n. 1 (1783), Sonata in fa minore op. 13 n. 6 (1784), Sonata in fa diesis minore op. 25 n. 5 (1788), Sonata in sol minore op. 34 n. 2 (1795), Sonata in si minore op. 40 n. 2 (1801-1802), Sonata in re minore op. 50 n. 2 (1821), Sonata in sol minore op. 50 n. 3 “Didone abbandonata - scena tragica“ (1821). Come si può facilmente notare ben quattro Sonate sono state composte nella tonalità di sol minore.
Sol minore è tonalità elegiaca, ricca di chiaroscuri, la tonalità del dramma intenso ma soffuso. Anche Mozart la amava particolarmente, se pensiamo ad alcuni capolavori come le Sinfonie n. 25 K 187 (1773) e n. 40 K 550 (1788) e il Quintetto per archi K 516 (1787).
Non è questa la sede opportuna per aprire un dibattito sul significato estetico e spirituale delle tonalità, né sul ruolo che queste hanno avuto in rapporto alle personalità e all’itinerario creativo dei compitori. Pensiamo, ad esempio, ai tanti capolavori beethoveniani in do minore, dalla V Sinfonia, al Terzo Concerto per pianoforte e orchestra, all’Ouverture del Coriolano, alle Sonate per pianoforte op. 13 Patetica e op. 111, alla Sonata in do minore op. 30 n. 2 per violino e pianoforte.
La Sonata in sol min. op. 50 n. 3 “Didone abbandonata - scena tragica“, pubblicata da Clementi e Collard nel 1821 appartiene a un gruppo di Tre Sonate, dedicate a Luigi Cherubini.
L’anno 1821 vede la nascita di importanti lavori pianistici: la Sonata op. 46, i Due Capricci op. 47, la Fantasia con variazioni op. 48 sul tema “Au clair de la lune” , le Dodici Monferrine op. 49 e le Tre Sonate op. 50.
Queste opere “costituiscono cinque diversi contributi alle forme del repertorio pianistico, così come erano andate definendosi anche grazie a Clementi stesso”. Clementi ormai “divideva solo con Beethoven (e forse con Schubert) il primato della grandezza pianistica, ma più di lui [¼] contava su un largo pubblico fedele, in grado di accettare il coefficiente di accelerazione che egli stesso aveva impresso alla ruota del tempo”.
Mozart era morto nel 1756, Haydn nel 1809 e all’orizzonte si affacciava la generazione dei grandi musicisti romantici nati intorno al 1810 (Mendelssohn-Bartholdy, Chopin, Schumann, Liszt).
In quegli anni Beethoven scriveva le Sonate op. 109, 110 e 111 (1820-1822), le Bagatelle op. 119 (1820) e la Missa solemnis op. 123 (1819-1823), Schubert la Fantasia in do maggiore D. 760 Wanderer (1822), Weber la Quarta Sonata in mi minore op. 70 (1819-1822).
“Per meglio intendere il work in progress che accompagna il lungo travaglio del [¼] corpus sonatistico [beethoveniano], gli studiosi sono ricorsi alla “periodizzazione”. La prima e più conosciuta è quella che fu proposta da un musicologo di origine russa, Wilhelm von Lenz, che in Beethoven et ses trois styles (1852) ripartì le sonate in tre gruppi.: op. 2-22; op. 26-90; op. 101-111. [¼]
Le continue trasformazioni cui il Maestro sottoponeva la struttura delle sue sonate sembravano forzare i confini dello stile classico. Un aspetto vistoso delle modifiche via via operate dall’interno è il ricorso a strutture inconsuete per la forma sonata, che pure continuò a impiegare: cioè la variazione, la fantasia, il canone e la fuga con i relativi procedimenti compositivi.”
[Beethoven] “non obbedisce ad altre leggi che non siano quelle dettate di volta in volta dalle singole situazioni espressive. Affronta i rischi di una libertà assoluta che, dopo di lui, i romantici oseranno attuare soltanto in piccoli pezzi brevi, riducendo l’ambito della composizione per poter padroneggiare la disponibilità irresponsabile d’una libertà senza limiti. [¼]
Quest’ultimo pianoforte di Beethoven ha davvero un suono fantomatico, inesistente, a cui corrisponde una musica rotta e visionaria, immersa nelle trascoloranti nebbie foniche del pedale sino al momento di coagularsi in inattese e complesse zone formali. Ricompaiono infatti [¼] le due forme più rigide che abbia elaborato la musica dotta: la fuga e il tema variato.”
Pensiamo ad esempio alla Fuga a tre voci, con alcune licenze, ultimo movimento della Sonata op. 106. Nella Sonata op. 110 la fuga, a tre parti, è preceduta da un Adagio e da un recitativo che cerca di plasmare il suono del pianoforte alla scansione declamata e sillabica della voce umana.
Ma forse gli aspetti lessicali più originali e assolutamente inediti sono da ricercare nei temi variati delle Sonate op. 109 e 111.
La forma del tema con variazioni è esercizio del compositore, spesso prova di mestiere e sapienza accademica. Beethoven stesso, come Haydn e Mozart ha del resto composto diversi cicli di variazioni, molti senza numero d’opus.
I temi variati che concludono le Sonate op. 109 e 111 eludono ogni intento brillante e virtuosistico o la retorica compositiva basata su formule e schemi predefiniti. Nel tema con variazioni che conclude l’op 109 ogni variazione esplora un preciso ambito espressivo e linguistico.
Il trillo diviene uno degli elementi sintattici che danno una nuova dimensione spaziale del suono. Beethoven lo aveva già usato in funzione espressiva nelle Sonate op. 53 e op. 106. La melodia si staglia sopra catene di trilli e le figure vengono sospinte nelle zone estreme della tastiera. La dilatazione e la conquista di un nuovo spettro sonoro creano sonorità inedite, quasi impressioniste. I temi sono avvolti in un amalgama sonoro e risuonano nella tessitura acuta e iperacuta dello strumento.
Nell’ultima Sonata op. 111 il contrasto fra i due tempi è assoluto. Il primo movimento Allegro con brio ed appassionato, in do minore, è preceduto da un Maestoso, con figurazioni ritmiche fortemente puntate (come nella Didone abbandonata di Clementi). Il carattere eroico viene enunciato già dalla cellula tematica iniziale, che è il principio costruttivo dell’intero movimento.
Il secondo movimento Arietta con variazioni è una pagina visionaria, nella più consueta tonalità del sistema temperato, do maggiore. A differenza del tema variato dell’op. 109, dove ogni variazione ha una propria identità espressiva e linguistica, le variazioni nascono l’una sull’altra come per germinazione e conquistano progressivamente spazio e densità sonora. La musica si espande negli spazi siderali del suono, in una dimensione metafisica di trascendenza e spiritualità.
Thomas Mann dedica, nel suo capolavoro Doctor Faustus, una lunga pagina di analisi critica e psicologica dell'opera beethoveniana, classificandola come "l'ultima sonata" della tradizione classico-romantica, una sorta di commiato drammatico e sofferto verso la tradizionale forma tripartita del genere sonatistico. Il racconto è ambientato in una piccola sala da concerto, in cui un modesto interprete pone all'uditorio l'interrogativo che lo guiderà - faticosamente - nella difficile interpretazione del brano: “Perché Beethoven non ha aggiunto un terzo tempo alla sonata per pianoforte op. 111?"
Un terzo tempo? Una nuova ripresa… dopo questo addio? Un ritorno… dopo questo commiato? — Impossibile. Tutto era fatto: nel secondo tempo, in questo tempo enorme la sonata aveva raggiunto la fine, la fine senza ritorno. E se diceva “la sonata” non alludeva soltanto a questa, alla sonata in do minore, ma intendeva la sonata in genere come forma artistica tradizionale: qui terminava la sonata, qui essa aveva compiuto la sua missione, toccato la meta oltre la quale non era possibile andare, qui annullava se stessa e prendeva commiato.
Per il “suo opus ultimum” Clementi si ispirò al dramma cantato da Virgilio nel Quarto Libro dell’Eneide. Dramma divenuto un mito, per i forti valori simbolici e passionali che descrive, dove l’amore si coniuga indissolubilmente alla tragedia e alla morte.
L'Eneide è un poema epico della cultura latina scritto dal poeta Publio Virgilio Marone tra il 29 a.C. e il 19 a.C. Narra la leggendaria storia dell'eroe troiano Enea (figlio di Anchise e della dea Venere) che riuscì a fuggire dopo la caduta della città di Troia, e che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano.
Didone, regina di Cartagine, si rivolge alla sorella Anna, ammettendo i sentimenti per Enea, che ha riacceso l'antica fiamma d'amore, il solo per cui violerebbe la promessa di fedeltà eterna fatta sulla tomba del marito Sicheo. Anna riesce a persuaderla: la sorella è infatti sola e ancora giovane, non ha prole ed ha troppi nemici intorno. Didone allora immola una giovenca al tempio e riconduce Enea nelle mura. È notte. Giunone allora propone a Venere di combinare tra i due giovani il matrimonio. Venere, che intuisce il disegno di sviare Enea dall'Italia, accetta, pur facendo presente a Giunone la probabile avversità del Fato. L'indomani stesso, Didone ed Enea partono a caccia ma una tempesta li sconvolge: si rifugiano così in una spelonca, consacrando il rito imeneo. La Fama, mostro alato, avverte del connubio Iarba, pretendente respinto di Didone e re dei Getuli, che invoca Giove. Il padre degli dei invia il suo messaggero Mercurio a ricordare a Enea la fama e la gloria che attendono la sua discendenza. Enea allora chiama i suoi compagni, arma la flotta e si appresta a partire, pensando al modo più agevole di comunicare la decisione a Didone. Ma la regina, già informata dalla Fama, corre infuriata da Enea, biasimandolo di aver cercato di ingannarla e ricordandogli del loro amore e della benevolenza con cui l'aveva accolto, rinfacciandogli poi di non avere neppure coronato il loro sentimento con un figlio. Enea, pur riconoscendole i meriti, spiega che non può rimanere, perché è obbligato e continuamente sollecitato dagli dei e dall'ombra del defunto padre Anchise a cercare l'Italia. Ritornato alla flotta, rimane impassibile alla rinnovata richiesta di trattenersi mossa da Anna e alle maledizioni di Didone, che è perseguitata dal dolore con continue visioni maligne. Riferita la decisione di dedicarsi alle arti magiche per alleviare tante pene, la regina ordina quindi alla sorella di mettere al rogo tutti i ricordi e le armi del naufrago nella sua casa e invoca gli dei. Così, nella notte, mentre la regina escogita il modo e il momento del suicidio per porre fine a tanti affanni, Enea, avvertito in sonno, fugge immediatamente da quella terra. All'aurora, con la vista del porto vuoto, Didone invoca gli dei contro Enea, maledicendolo e augurandogli sventure, persecuzioni e guerra eterna tra i loro popoli. Giunta sulla pira funeraria, si trafigge con la spada di Enea, mentre le ancelle e la sorella invocano disperate il suo nome. Giunone poi invia Iride a sciogliere la regina dal suo corpo e a recidere il capello biondo della sua vita. Voltandosi indietro dal ponte della sua nave, Enea vede il fumo della pira di Didone e ne comprende chiaramente il significato: tuttavia il richiamo del destino è più forte e la flotta troiana fa vela verso l'Italia.
Nel 1724 Pietro Metastasio scrisse il libretto per l’opera seria Didone abbandonata. La prima rappresentazione si tenne a Napoli, durante la stagione carnevalesca, con la musica di Domenico Sarro.
Il libretto metastasiano “che aveva tradotto gli eventi del quarto libro dell’Eneide in una bilanciata successione di arie e recitativi” fu musicato da una schiera impressionante di compositori. Ne citiamo, per brevità, soltanto alcuni: Tomaso Albinoni (Venezia, 1724), Leonardo Vinci (Roma, 1726), Georg Friedrich Händel (Londra, 1736), Nicola Porpora (1741), Baldassarre Galuppi (Modena, 1741), Johann Adolf Hasse (Dresda, 1742), Niccolò Jommelli (Roma, 1747), Tommaso Traetta (Venezia, 1757), Giuseppe Sarti (Copenaghen, 1762), Niccolò Piccinni (Roma, 1770), Luigi Cherubini (Brescia, 1787), Giovanni Paisiello (Napoli, 1794), Saverio Mercadante (Torino, 1823).
Ci interessa ancora sottolineare almeno due capolavori del teatro in musica ispirati alle vicende della Regina Didone e alla commovente storia che da queste scaturiva: l’opera barocca Dido and Aeneas di Henry Purcell (1659-1695), andata in scena a Londra nel 1689 e l’opera in cinque atti Les Troyens (1856-1858) di Hector Berlioz (1803-1869), su libretto dello stesso compositore.
Ma, come afferma Riccardo Allorto, il modello a cui Clementi si è ispirato potrebbe anche essere la Sonata in sol minore Didone abbandonata per violino e basso continuo op. 1 n. 10 (Amsterdam 1734) del compositore istriano Giuseppe Tartini (1692-1770).
“Le attitudini programmatiche della musica erano già state sfruttate lungo tutto il Settecento. Come tutti sanno, in direzione naturalistico-descrittiva, realistica o di evocazione mitologica si erano cimentati molti musicisti, a partire dai francesi Couperin e Rameau per giungere ai nostri Vivaldi e Boccherini.”
La Sonata clementina, piuttosto che ispirarsi alla trama del poema virgiliano e descrivere un’immaginaria galleria di personaggi e situazioni quanto mai variegate e multiformi, canta in realtà un solo tema: il lamento e la morte della Regina Didone. “Con la sua ossessiva riproposizione del motivo del lamento e delle sue varianti, si può concepire quasi come un monumentale monologo.”
La Sonata è articolata in tre movimenti; i due movimenti estremi sono di ampie proporzioni ed entrambi in forma-sonata. Il primo movimento Allegro, ma con espressione, è preceduto da un’ampia introduzione (Largo patetico e sostenuto). Procedimento compositivo usato spesso da Haydn nelle Sinfonie parigine e londinesi e dallo stesso Clementi nelle Sonate in sol minore op. 34 n. 2 (1795), in si minore op. 40 n. 2 (1801-1802), in re maggiore 40 n. 3 (1801-1802), in si bemolle maggiore op. 46 (1820), e nei due stupendi Capricci op. 47 (1821).
Il Largo patetico e sostenuto in ¾ ricorda i fasti della scrittura barocca e afferma subito il carattere tragico dell’intera Sonata. Questo Preludio introduttivo di quindici battute è scandito da figurazioni ritmiche fortemente puntate, come nel Maestoso che apre la Sonata op. 111 di Beethoven. La dinamica oscilla dal piano al fortissimo e la scrittura accordale piena e vigorosa proietta il pianismo clementino verso la densità fonica dei compositori di fine ottocento.
Il Largo termina affermando una cadenza sospesa alla dominante, che risolve nell’ Allegro, ma con espressione.
Questo è il vero e proprio primo tempo della Sonata. Un tema lirico e cantabile -deliberando e meditando, secondo le didascalie dell’autore- anima con slancio crescente l’intero movimento. L’unità strutturale è assicurata dalla incessante elaborazione del materiale tematico, senza una diretta contrapposizione fra i temi. Lo sviluppo, si frange in procedimenti modulativi continui, e, dopo una sezione in la maggiore, esordisce con un possente canone in ottava. La tensione emotiva sale fino alla ripresa, con il crescendo incalzante dello spessore fonico e l’ispessimento della densità armonica. Un’ energica ed inattesa coda tematica (Più allegro) conclude drammaticamente il movimento.
“Clementi non si accontenta più di costruire un solo movimento in forma-sonata oppure i due movimenti esterni a partire da una base motivica comune: tutti e tre, unitamente all’introduzione lenta del primo, si possono ricondurre a un unico motivo di seconda discendente, legato e in battere, che nella retorica musicale già da secoli simboleggiava il sospiro.”
Il tempo lento (Adagio dolente) è come una grande scena d’opera. Sui riverberi di un lungo e protratto pedale di dominante, si libra un canto dolorosamente intimo e semplice (con espressione): il Lamento di Didone. Il dolore piano piano pervade l’intero tessuto sonoro, come un intimo e dolente monologo. Qui sembra che ogni vincolo formale sia superato, e che la creazione musicale nasca proprio dal mutevole fluire dei sentimenti; quasi una forma libera e aperta, già pienamente romantica, che si modella sul fluttuare dell’ispirazione. I pochi momenti di rasserenamento, costruiti perlopiù nella tessitura iperacuta della tastiera, o con una fittissima polifonia tematica, sono in realtà illusori.
L’Adagio esordisce con una sequenza di crome ribattute a cui segue un veloce arpeggio ascendete, come una breve e suggestiva introduzione orchestrale. La tonalità è ancora sol minore, come nei movimenti estremi della Sonata. L’armonia, fortemente cromatica, conferisce a tutto brano una vaga instabilità tonale, e ne esalta il continuo divenire. Il trascolorare dei sentimenti è sottolineato acutamente dalle indicazioni autografe (lamentando, e successivamente languente), che animano la partitura. L’uso di un campo sonoro ambiguo e sospeso servì in questo caso a Clementi a caratterizzare l’indefinitezza e l’intimo tormento del personaggio immaginato. La ripresa del tema principale riporta al dramma iniziale e avviene ancora in un pedale di dominante e sopra un lungo pedale di risonanza. Frammenti cromatici discendenti (languente) sottraggono l’armonia a possibili centri di gravitazione tonale. Il climax dinamico dell’intero movimento arriva dopo un crescendo di tensione emotiva: sopra un tremolo di settima diminuita, accordi arpeggiatati scivolano verso il basso, come un grido di dolore.
“Nonostante il suo carattere deciso e la sua portata poetica, [¼] questo Adagio dolente [¼] possiede una sua ragion d’essere solo come ponte fra il primo e il terzo movimento. Così Clementi ha proseguito una tradizione che in alcuni casi, come ad esempio in Beethoven, aveva trasformato il ruolo del movimento lento – si pensi soprattutto alla Sonata in Do maggiore Op. 53 (‘Waldstein’) o alla Sonata in mi♭maggiore Op. 81a (Les Adieux).
L' Allegro agitato e con disperazione, che conclude la Sonata, è un potente movimento in forma-sonata, con i due temi chiaramente identificabili, e un esteso sviluppo. Clementi sfrutta tutti i procedimenti costruttivi e di elaborazione del materiale tematico in uso, quasi una summa della sua scienza musicale.
“Una linea melodica discendente, sostenuta inizialmente da un pedale di tonica, è presentata da un ritmo dattilico che pone una nota lunga (e quasi sempre dissonante) all’inizio di ogni battuta.”
A differenza del primo e del secondo tempo, dove i temi si espandevano in profilature melodiche ampie e fluenti, qui la musica ripete quasi ossessivamente un frammento tematico minimo, che rappresenta la cellula motivica dell’intero movimento. Intervalli di nona minore e settima diminuita, sui tempi forti delle battute, contrastano decisamente con il carattere cantabile ed eufonico dei movimenti precedenti. Inoltre l’indefinitezza e sospensione tonale che avevano improntato la struttura armonica dell’Adagio dolente, contrastano con l’affermazione imperiosa della tonalità di sol minore, scandita, sin dall’inizio, da un pedale di tonica ripetuto con una pulsazione ritmica cadenzale. La definizione di un campo sonoro tonalmente certo e stabile ha riflessi e significati che trascendono la pura astrazione analitica: probabilmente elabora in musica l’epilogo tragico a cui la Regina Didone è condannata dalla sua stessa irrinunciabile volontà.
Non è “difficile intendere che l’Allegro ma con espressione [¼] commenta la tempestosa rievocazione fatta dalla Regina cartaginese della sua vicenda amorosa, dopo la partenza di Enea; che l’Adagio dolente dipinge la tristezza dell’abbandono e della solitudine; che l’Allegro agitato e con disperazione raccoglie il senso della sua tragica, irrevocabile decisione.”
Nello sviluppo, la scrittura imitativa a canone, l’inversione tematica della melodia, ed il ricorso a tonalità sempre più lontane, permettono una serrata esplorazione dei temi, alterandone continuamente il profilo espressivo. I bagliori di una vibrante coda conclusiva (con passione), dolorosamente cromatica, suggellano il dramma, conferendo all’intera pagina un dirompente slancio catartico.
Nonostante gli elementi che abbiamo descritto possano far presagire un clima di incipiente Romanticismo, la Sonata resta ancorata ad un’idealità di proporzioni classiche. La totale adesione ai principi formali e sintattici della forma-sonata, il rifiuto del libero e rapsodico divenire delle idee musicali, la logica compositiva calibrata e bilanciata su simmetrie e auree proporzioni, collocano l’opera in un estetica neoclassica, ancorata “alle regioni native della clarté che derivava dalla formazione settecentesca del musicista.”
Per l’intima aderenza ai valori emotivi del dramma supposto, per la bellezza delle idee musicali e la coerenza dei procedimenti costruttivi, per la raggiunta unità nella molteplicità, per “l’impiego di tutte le possibilità espressive [nella] pratica virtuosistica della musica pianistica”, la Didone abbandonata è opera perfetta. Essa è la sintesi e il punto di arrivo di un itinerario compositivo che dallo stile galante conduce agli albori del Romanticismo. Per queste motivazioni, l’opera attinge a pieno titolo alle categorie olimpiche della perfezione e del sublime.
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Allorto, Riccardo, Le sonate per pianoforte di Muzio Clementi, Firenze, Leo S. Olschki- Editore, 1959, p. 63.
AAVV, “Anselm Gerhard: Il neoclassicismo nella musica strumentale. Muzio Clementi e la sua ultima sonata la Didone abbandonata”, in Bösel Richard e Sala Massimiliano (ed.), Muzio Clementi Cosmopolita della musica, Bologna, UT ORPHEUS EDIZIONI S.r.l., 2004, p. 61.
Allorto, Riccardo, Op. cit. p. 59.
Allorto, Riccardo, Il pianoforte classico, Sesto Ulteriano – San Giuliano Milanese (MI), BMG Publications srl, 2007, p. 169.
Mila, Massimo, Le 32 Sonate per pianoforte di Beethoven, Tipografia Guerra., 1982, pp. 22-24.
AAVV, “Anselm Gerhard: Op. cit.” p. 64.
AAVV, “Anselm Gerhard: Op. cit.” p. 75.
Allorto, Riccardo, Le sonate per pianoforte di Muzio Clementi, Firenze, Leo S. Olschki- Editore, 1959, p.61.
Ibidem.
AAVV, “Anselm Gerhard: Op. cit.” p. 75.
AAVV, “Anselm Gerhard: Op. cit.” p. 65.
AAVV, “Anselm Gerhard: Op. cit.” p. 68
Plantinga, Leon, Clementi. His Life and Music, New York, Toronto, Oxford University Press, 1977 (tr. it. di Luciano Petazzoni, Clementi La vita e la musica, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1980, p. 270).
Allorto, Riccardo, Op. cit. pp. 61-62.
Allorto, Riccardo, Il pianoforte classico, Sesto Ulteriano – San Giuliano Milanese (MI), BMG Publications srl, 2007, p. 144.
AAVV, “Anselm Gerhard: Op. cit.” p. 79.